PERUGIA – Avvocato, giudice sportivo, musicista. In aula per il delitto Kercher come per il processo Andreotti o i Grandi eventi, o sul palco con il suo sax (e la moglie come voce solista) oppure nel decidere squalifiche e punizioni per i calciatori poco educati. Qualsiasi “abito” decida di indossare, l’avvocato Marco Brusco è un sicuro protagonista sotto l’occhio della telecamera o davanti al taccuino del giornalista.
Come e perché hai scelto di fare l’avvocato?
«Era la terza scelta dopo il calciatore (portiere, ndr) e il musicista. Quando ho capito che fare entrambi a buoni livelli era molto difficile, ho preferito gli studi di giurisprudenza. Senza mai tralasciare, però, la musica e il sax; e il calcio mi è rimasto sempre nel cuore, visto che sono giudice sportivo».
Perché hai scelto Perugia?
«Per due motivi: perché c’è Umbria jazz e perché c’è un’ottima università. Perugia è una città a misura di studente».
Mai pensato di fare il pubblico ministero o il giudice?
«Non ho avuto tempo, ho iniziato a lavorare appena laureato, ma mi sarebbe piaciuto fare il giudicante. D’altronde lo faccio ogni settimana come giudice sportivo».
Come è iniziata la carriera da avvocato?
«Ho seguito la strada tracciata per tutti i professionisti che fanno penale: le difese d’ufficio, una vera palestra per tutti gli avvocati penalisti. Poi con il tempo sono arrivati i primi casi importanti. Nel 1996 il processo ai tre uomini del Sisde coinvolti nel procedimento a carico di Giulio Andreotti. Quel processo mi ha fatto capire quanto sia importante e bello studiare non solo le carte processuali, ma anche il contesto storico in cui si inserisce la vicenda. Ho seguito il processo a carico di Raffele Sollecito fino al primo grado e poi quelli collegati ai familiari. In giro per l’Italia mi sono occupato dei procedimenti per i “vitelli d’oro”. Ho assistito anche un indagato nel processo per i Grandi eventi, l’unico che è uscito assolto in fase preliminare. Adesso seguo i familiari di Raffaela Presta, l’avvocato ucciso dal marito a Perugia un anno fa».
Quale rapporto con la stampa?
«I processi importanti, ormai, sono seguiti dai giornalisti e l’avvocato deve, per forza, rapportarsi con la stampa. Finora il rapporto è stato molto buono perché è rimasto all’interno di quel rispetto delle proprie competenze e ruoli che direi necessario».
L’interesse mediatico incide sull’andamento del processo?
«In linea di massima no, ma quando c’è una giuria popolare è possibile che i componenti risentano di impressioni e valutazioni fornite dalla stampa. I giudici togati non penso minimamente che si facciano influenzare dai giornali».
I giornalisti esagerano nella ricerca della notizia, del particolare, dell’esclusiva?
«Sì, penso che a volte esagerino».
Cambia il rapporto con la stampa in base al ruolo, parte civile o difensore dell’indagato, dell’avvocato?
«In genere sì, anche se ho sempre avuto ottimi rapporti con la stampa, tanto che non ho mai fatto una denuncia».
Le difficoltà maggiori?
«La gestione del cliente e dei parenti se questi è detenuto, perché ogni giorno in carcere sembra un anno. Altro aspetto è quello di non farsi influenzare dalla pressione mediatica, ma limitarsi allo studio degli atti».
Quindi l’avvocato deve sempre rispondere “no comment”?
«No, dipende dalle situazioni. Le norme deontologiche ci impongono la riservatezza e le leggi ci ricordano che la difesa si fa in aula, ma ci sono dei momenti e delle situazioni in cui l’avvocato, sempre nel rispetto della deontologia, deve fare delle dichiarazioni per rendere più leggera la posizione del proprio assistito o chiarire alcuni aspetti che lo possono danneggiare. Arriva sempre il momento in cui bisogna rilasciare delle dichiarazioni utili al cliente».
Come ti vedi in pensione, lontano dal tribunale?
«Intanto la pensione la vedo lontanissima, ma di sicuro con più tempo da dedicare alla musica, ai viaggi e alla lettura, non di atti processuali».